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4.
Pensare un progetto educativo Per restituire speranza alla vita
sessuale delle persone handicappate attraverso un progetto educativo che
li aiuti a dare forma e significato alle loro carezze, è necessario
interrogarsi sui principi e sui meccanismi che regolano il loro
funzionamento mentale ed interpersonale e sulle risorse che possono essere
attivate per migliorare tale funzionamento attraverso l’educazione. Molto spesso limitiamo
pregiudizievolmente le possibilità di conoscenza dei portatori di
handicap mentale, assumendo che la loro attività psichica possa essere
identificata con la capacità di formare delle associazioni tra stimoli e
risposte, e di acquisire delle abitudini comportamentali sulla base
dell’azione di alcuni semplici meccanismi neurofisiologici. Troppo spesso, quindi, ci
dimentichiamo che anche il loro cervello, proprio come il nostro, sta
cercando di dare significato alla vita, ai gesti, alle azioni, agli
incontri. A volte, dietro le loro carezze
si nascondono storie di sofferenza, di disagio, di emarginazione, in cui
la sessualità è vissuta in solitudine, di nascosto, magari accompagnata
da sentimenti di disperazione, di impotenza, di frustrazione, oppure
esibita, magari nei posti e nei momenti sbagliati, usata per rendersi
interessanti, per riempire il vuoto della propria vita o per soddisfare un
istinto che non si riesce a controllare. Altre volte sono storie di abuso,
di violenza, in cui manca la capacità di corteggiarsi, di incontrarsi, di
conoscersi, di scambiarsi dei buoni messaggi e il desiderio diventa
aggressivo, invadente, pericoloso. Poi ci sono anche storie meno
sole, storie in cui esiste un piacere condiviso, il piacere di stare
insieme, di coccolarsi, di scambiarsi qualche bacio, forse di essere
l’uno dentro l’altro. Piacere che a volte espone al pericolo di
contrarre una malattia o di iniziare una gravidanza indesiderata. Può anche capitare che una
coppia desideri un bambino, ma che non possa o non sappia progettare il
proprio futuro con lui. Sono tutte situazioni che ci
inquietano, ci preoccupano, e che spesso non comprendiamo fino in fondo.
Ma dietro ognuna di queste situazioni c’è una logica, c’è un
racconto, c’è un significato che trova una motivazione precisa nella
storia e nella disabilità di quella persona o di quella coppia. Anche i comportamenti che noi
consideriamo inadeguati, spesso rappresentano l’unica o la migliore
soluzione possibile per quella persona, con quei limiti, in quella
circostanza. Per sostenere le carezze dei
portatori di handicap, abbiamo quindi bisogno di conoscere il significato
di quelle carezze, i vincoli e le possibilità di conoscenza che in esse
sono contenuti. Le strutture e le funzioni del
cervello limbico, un’area del sistema nervoso centrale di solito meno
compromessa dalle lesioni responsabili del deficit consentono, anche alle
persone che hanno difficoltà significative nell’uso del ragionamento,
di poter valutare le implicazioni che un cento evento ha rispetto a sé ed
alla relazione con l’altro e quindi, in qualche modo, di dare
significato a quell’evento. Si tratta di una valutazione che
potremmo definire pre-cognitiva, basata non sul pensiero o sul
ragionamento, ma sulle emozioni, sulle immagini e su sequenze
significative di immagini mentali. E' un sistema rapido ed
efficiente che consente a tutti gli esseri umani di accedere alla
conoscenza di se stessi, del proprio corpo, dei propri stati interni, di
riconoscere o almeno intuire il significato delle esperienze emotive delle
altre persone, di comunicare con loro, di orientare il proprio
comportamento verso obiettivi ben definiti. Alcune persone handicappate
riescono addirittura ad organizzare e ad integrare questi significati
all’interno di un’idea di sé e del mondo sufficientemente stabile e
coerente. Tuttavia, data la compromissione
funzionale di qualche area neocorticale, l’accesso a questa
rappresentazione di sé è per alcune di loro parzialmente ostacolato, al
punto che le sequenze di eventi, le immagini, le sensazioni, i significati
che in essa sono contenuti non possono essere efficacemente utilizzati per
comprendere, spiegare e prevedere gli stati mentali ed il comportamento
proprio degli altri Per
questo alcuni disabili mentali hanno difficoltà ad accogliere nelle loro
carezze il punto di vista dell’altro, a costruire delle storie o a
riconoscere l’opportunità e l’adeguatezza di un certo comportamento. L’educazione andrà allora
concepita come un percorso di conoscenza che consenta alle persone di
trovare i significati migliori per la propria vita e di imparare ad
esprimerli attraverso modalità che rappresentino per loro un'occasione di
crescita, anziché di disagio e di emarginazione. Il principale fondamento di un
progetto di educazione sessuale per disabili psichici che venga elaborato
sulla base di questo tipo di approccio è senza dubbio rappresentato dal
concetto di relazione educativa emozionante. Se i nostri ragazzi imparano di
più e imparano meglio ascoltando i segnali trasmessi dal proprio corpo,
una parte fondamentale del nostro lavoro educativo consisterà proprio nel
riuscire a suscitare nel loro corpo sensazioni positive nei confronti
della sessualità. Per poter entrare nei loro corpi
e nelle loro carezze il discorso deve poter assumere la forma di un
racconto, il racconto delle nostre carezze sessuali, magari il racconto di
un film che possiamo far proiettare mentre parliamo di sesso con i nostri
ragazzi. Il nostro modo di vivere e di
sentire quel racconto deve poter far nascere in loro il desiderio di
cercare, nella loro conoscenza spesso tacita ed inconsapevole, il
significato di quella storia, le motivazioni che ci spingono a
raccontarla, i desideri, le aspettative che guidano le azioni dei suoi
protagonisti, i possibili altri modi di raccontare la stessa sequenza di
avvenimenti, di azioni, di stati mentali, di gesti, di sensazioni. La loro ricerca sarà guidata
dagli scenari mentali e dalle sensazioni che le nostre parole e le nostre
emozioni riusciranno ad evocare in loro, e che potranno diventare la trama
narrativa di un nuovo racconto, il loro racconto. Alcuni dei significati delle loro
storie potranno essere descritti con le parole, altri, probabilmente la
maggior parte, si esprimeranno invece attraverso i loro volti, i loro
gesti, le loro azioni, il loro modo di stare fisicamente nella relazione
con noi. Non importa se saranno fatti di
immagini, di sensazioni, di emozioni, piuttosto che di pensieri o di
ragionamenti, e non importa neppure se saranno consapevoli o
inconsapevoli, taciti o dichiarati, ciò che conta è che questi
significati, i loro significati, potranno aiutare le persone handicappate
a recuperare frammenti disordinati e dimenticati della loro conoscenza di
se stessi e del modo per costruire, con il nostro aiuto, un progetto,
anche minimo, di vita futura. Il tempo del loro racconto potrà
infatti non essere il tempo di una vita, e magari neanche quello dei
prossimi mesi, ma potrebbe essere il tempo sufficiente per dare un senso
ad una carezza. I contenuti della nostra
narrazione devono insegnare ai nostri ragazzi come incontrarsi, come
conoscersi, come corteggiarsi. Devono poter entrare senza
difficoltà nelle loro carezze, suggerendo loro sequenze logiche e
finalizzate da pensieri e comportamenti, insegnando se, come e quando
utilizzare queste sequenze con finalità etiche ed estetiche, ed
aiutandoli a riconoscere in ognuna delle loro carezze la carezza speciale
di un essere umano unico ed irripetibile, la parte incarnata della loro
storia e del loro essere nel mondo. La logica ed il ragionamento
possono mancare, ma laddove ci sono livelli anche minimi di
consapevolezza, di intenzionalità e di capacità di stare nella
relazione, ci sono i presupposti per l’acquisizione di questi
significati. Il linguaggio della nostra
narrazione deve essere un linguaggio semplice, quotidiano, un linguaggio
che riesca a toccare i loro corpi, che li stimoli a cercare i propri
significati, che evochi in loro la nascita di immagini, di sensazioni. Con le persone handicappate
spesso però le parole non rappresentano il migliore strumento per
conoscere il mondo. La sola, possibile alternativa,
in questi casi, è l’esperienza diretta sul proprio corpo o sul corpo di
un modello, proprio come per qualsiasi altro apprendimento. Per una serie di problematiche
legate al rispetto dell’intimità personale, non è affatto semplice
utilizzare il corpo come strumento didattico, ma se vengono rispettate
alcune fondamentali regole deontologiche e metodologiche, il corpo
rappresenta sicuramente il mezzo migliore per rendere possibile qualche
forma di conoscenza. Un altro fondamento del nostro
progetto educativo consiste nella ricerca e nella ricostruzione dei
significati personali che le persone handicappate attribuiscono alla
sessualità. Per aiutarli a costruire delle
carezze migliori, abbiamo infatti bisogno di conoscere le loro attuali
carezze, di domandarci se rappresentino davvero l’unica e la migliore
soluzione possibile, o se non possiamo invece aiutarli a trovare delle
alternative meno difficili e meno dolorose. Dobbiamo quindi avere il coraggio
di entrare nelle loro carezze, con garbo, con discrezione, ma senza
sentirci fuori posto, dobbiamo poter restare, metaforicamente, nelle loro
mani, nei loro corpi, nei loro incontri, il tempo sufficiente per
costruire con loro un nuovo racconto. Lasciandoci guidare dalle scene
del film che scorre davanti ai nostri occhi dobbiamo quindi guidarli nella
ricerca e nel riconoscimento dei significati e delle sequenze contenute
nelle loro carezze. Possiamo farlo aiutandoli a
ricostruire, in forma narrativa, i pensieri, le emozioni, le sensazioni, i
comportamenti, gli eventi che caratterizzano ogni singola fase della loro
risposta sessuale, in riferimento ad uno o più episodi specifici. I
contenuti, la struttura, la coerenza e lo stile narrativo dei loro
racconti ci consentono di formulare delle ipotesi funzionali sul
significato che la persona o la
coppia attribuiscono a quell’incontro, a quel comportamento o a quell’
evento. Ricostruendo le sequenze presenti
nei loro racconti, possiamo inoltre riconoscere l’eventuale presenza di
discontinuità, discordanze e salti logici che rendono a volte troppo
faticosa, a volte decisamente destrutturata la, narrazione. Osservando il loro corpo possiamo
invece avvicinarci, con una ragionevole approssimazione, al significato
profondo della loro esperienza, riuscendo a conoscere e a condividere con
loro sensazioni ed immagini altrimenti non traducibili. Il nostro compito di educatori
sarà dunque quello di ascoltare i loro racconti per comprendere,
riformulare, riorganizzare le sequenze, suggerendo e negoziando nuove
sequenze, nuovi finali, nuove ambientazioni. Le stesse considerazioni
metodologiche valgono anche nel caso di interventi rivolti a condotte
sessuali problematiche. Prima di intervenire per
reprimere un comportamento è sempre necessario domandarsi quale
significato funzionale esso abbia nella vita della persona che lo esprime
e, soprattutto, quale valida alternativa ci sentiamo di proporre. Reprimere un comportamento senza
offrire delle alternative è un’aberrazione che fa soffrire e che non
sempre ottiene l’effetto desiderato. Qualsiasi intervento finalizzato
a limitare la libertà dell’individuo, oltre a dover essere
adeguatamente motivato dalla necessità di salvaguardare il benessere e
l’autonomia della persona (e non soltanto dal nostro personale disagio
ed imbarazzo di fronte alla situazione) deve dunque essere inserito
all’interno di un progetto educativo che sia orientato alla conoscenza
dell’individuo ed alla costruzione, per lui, dei più ampi spazi di
autodeterminazione possibile. Anche in tutte quelle situazioni
in cui è indispensabile impedire che venga tenuto agito un certo
comportamento, è necessario, a nostro avviso, essere molto prudenti e
commisurare la quantità di sofferenza che infliggiamo utilizzando un
metodo repressivo per ottenere i risultati desiderati. Esistono infatti metodi
repressivi più o meno restrittivi della libertà altrui. Tutti i sistemi basati sulla
negoziazione e sul patteggiamento hanno ad esempio implicazioni emotive
generalmente meno dolorose rispetto a quelli che interrompono il rapporto,
come l’estinzione o il time-out. Queste ultime due procedure
infatti, inviano alla persona alla quale vengono applicate messaggi di
rifiuto, di abbandono, che possono produrre un’angoscia molto più
intensa rispetto alla paura di una punizione. Ancora più sgradevole è il
blocco fisico. Infatti, di fronte ad una situazione percepita come
pericolosa l’essere umano è biologicamente predisposto a fuggire oppure
a difendersi attaccando. La costrizione fisica inibisce entrambe queste
possibilità incrementando l’ansia o la rabbia dell’individuo nei
confronti della situazione. Riuscire a restare calmi, saperaccomodare la
nostra presa alla reazione tonica dell’altro e soprattutto non
mantenerla più del necessario, è indispensabile per rendere la procedura
la più indolore possibile. La gerarchia proposta è
chiaramente indicativa, in quanto è molto soggettivo il modo di vivere le
stesse esperienze. Per alcune persone, ad esempio,
il contenimento fisico può risultare molto meno doloroso rispetto
all’esclusione dal rapporto ogni nostra decisione educativa va dunque
attentamente valutata sul singolo caso. Ogni nostro progetto educativo,
anche e soprattutto in ambito sessuologico, deve proporsi di aumentare gli
spazi di autodeterminazione della persona nel massimo rispetto dei suoi
delicati equilibri cognitivi, emotivi e comportamentali.
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